domenica 9 aprile 2017

LA FOTO DI ALBERT E.


LUI:

Tutto è relativo. Certo: se un cucchiaio cade non vuol dire che l’abbia perso o mollato dalle mani. E un bambino che mi guarda osservare quel fenomeno potrebbe pensare cose su di me e sulla posata nello stesso istante.

Allora perché dobbiamo discutere della caduta di un cucchiaio? Non è forse un fatto incontrovertibile che se gli tolgo l’appoggio da sotto, questo, per la forza di gravità, raggiunge la superficie più in basso più vicina? Se quella superficie è costituita dal mio piede, rimbalza all’impatto.

Eppure ci scanniamo per queste inezie tanto quanto due dittatori a confronto in un meeting delle Nazioni Unite.

E allora smettiamola, finiamo di avere la presunzione di essere sempre e comunque padroni di quella verità assoluta che forse nemmeno Dio ricorda.

Mi si rizzano i capelli al solo pensiero. I miei capelli… Mi hanno screditato per una foto apparsa in copertina su un famoso settimanale: non avevo una faccia pulita, non l’espressione borghese da educatore consunto e cattedratico.

Mi hanno cacciato: indegno, folle, pazzo, impazzito, inaffidabile…

Mi hanno fatto la guerra per quella espressione irriverente e conclamata. Me lo aveva chiesto il fotografo scherzando di rappresentare la mia idea sul mondo, la mia filosofia. Allora io ho tirato fuori la lingua. E’ quello che penso e non lo nego. L’esilio però non me lo merito. Non questo.

Sono scappato dagli orrori di casa mia per un valido motivo. Vigliacco? No, forse solo preveggente e cauto. Ho salvato la pelle e con essa anche questi capelli, bianchi dallo spavento, ma anche per la fatica.

E’ duro riuscire a farmi capire. Ho energia in testa. E idee, folli, strampalate, geniali, come quella di ripetere all’infinito l’esperimento della caduta del cucchiaio sul mio piede.

La mia inserviente si lamenta perché me lo faccio recuperare da lei ogni volta. Perché? Mi piace guardarle le terga quando si piega.


LEI:


Quell’immagine mi perseguita ancora e il ricordo fa male, nonostante riguardi un passato abbastanza remoto.

La fama ora è tutta dell’artista, morto qualche giorno fa, che ha immortalato il momento forse di maggior fragilità apparente del mio povero marito Albert, che oggi passa in secondo piano, come mero soggetto ritratto.

Era un periodo, quello dello scatto, in cui si era rilassato dopo lunghe ricerche e studi che portarono a grandissime scoperte e teorie rivoluzionarie. Eravamo però anche assediati da curiosi e giornalisti, da inviti a conferenze ed eventi.

Albert era popolarissimo e non ci scandalizzammo troppo quando una domenica pomeriggio ci chiamò qualcuno dalla redazione di un famosissimo settimanale per una intervista da tenersi obbligatoriamente quel giorno.

In dispensa avevo ancora tutto l’occorrente per il dolce della nostra patria e qualche altra leccornia da offrire a chi fosse toccato quell’incarico. Accettammo quindi dando appuntamento entro un’ora.

Puntuali arrivarono dribblando la solita ressa davanti casa. Li feci entrare con ancora addosso il grembiule e le scarpe comprate nella Grande Mela.

Passando per la cucina si accomodarono in salotto. Erano in due: uno con un taccuino in mano e una matita dietro l’orecchio, mentre l’altro aveva con sé una borsa dalla forma strana.

Andai a rinfrescarmi il viso in bagno e quando mi affacciai in sala da pranzo li scorsi chiacchierare e ridere come buoni amici. Non interessandomi a cosa discorressero mi occupai della tavola.

Appena Albert capì cosa avevo preparato, fece una smorfia di disgusto. Non gli piaceva più quel dolce: per lui sapeva troppo di Germania, di orrore, di guerra e non di mele, cannella e uvetta.

Lo scorse l’uomo con la strana borsa e gli chiese di ripetere il gesto mostrando una macchina fotografica. Mio marito allora tirò fuori del tutto la lingua e strabuzzò gli occhi.

Fu un attimo, uno di quelli che determinano il destino di un uomo. A nulla valsero i suoi studi e le sue ricerche: la condanna di intellettuali e benpensanti fu quasi unanime.

La cosa poi divenne pubblica al punto da far sparire l’assedio di curiosi in giardino, ma donò all’umanità intera la netta visione della faccia privata e nascosta di Albert E.

Se ne andarono contenti i due signori venuti da lontano quel giorno, accompagnati alla stazione dai nostri vicini.

Ne sentimmo parlare a lungo e leggemmo per molto tempo i loro articoli sui più famosi quotidiani.

Dopo quell’episodio ritrovammo la tranquillità, anche se ci pentimmo di aver accettato quella visita.