LUI:
Tutto è relativo. Certo: se un
cucchiaio cade non vuol dire che l’abbia perso o mollato dalle mani. E un
bambino che mi guarda osservare quel fenomeno potrebbe pensare cose su di me e
sulla posata nello stesso istante.
Allora perché dobbiamo discutere
della caduta di un cucchiaio? Non è forse un fatto incontrovertibile che se gli
tolgo l’appoggio da sotto, questo, per la forza di gravità, raggiunge la
superficie più in basso più vicina? Se quella superficie è costituita dal mio
piede, rimbalza all’impatto.
Eppure ci scanniamo per queste inezie
tanto quanto due dittatori a confronto in un meeting delle Nazioni Unite.
E allora smettiamola, finiamo di
avere la presunzione di essere sempre e comunque padroni di quella verità
assoluta che forse nemmeno Dio ricorda.
Mi si rizzano i capelli al solo
pensiero. I miei capelli… Mi hanno screditato per una foto apparsa in copertina
su un famoso settimanale: non avevo una faccia pulita, non l’espressione
borghese da educatore consunto e cattedratico.
Mi hanno cacciato: indegno, folle,
pazzo, impazzito, inaffidabile…
Mi hanno fatto la guerra per quella
espressione irriverente e conclamata. Me lo aveva chiesto il fotografo
scherzando di rappresentare la mia idea sul mondo, la mia filosofia. Allora io
ho tirato fuori la lingua. E’ quello che penso e non lo nego. L’esilio però non
me lo merito. Non questo.
Sono scappato dagli orrori di casa
mia per un valido motivo. Vigliacco? No, forse solo preveggente e cauto. Ho
salvato la pelle e con essa anche questi capelli, bianchi dallo spavento, ma
anche per la fatica.
E’ duro riuscire a farmi capire. Ho energia in testa. E
idee, folli, strampalate, geniali, come quella di ripetere all’infinito
l’esperimento della caduta del cucchiaio sul mio piede.
La mia inserviente si lamenta perché
me lo faccio recuperare da lei ogni volta. Perché? Mi piace guardarle le
terga quando si piega.
LEI:
Quell’immagine
mi perseguita ancora e il ricordo fa male, nonostante riguardi un passato
abbastanza remoto.
La
fama ora è tutta dell’artista, morto qualche giorno fa, che ha immortalato il
momento forse di maggior fragilità apparente del mio povero marito Albert, che oggi
passa in secondo piano, come mero soggetto ritratto.
Era
un periodo, quello dello scatto, in cui si era rilassato dopo lunghe ricerche e
studi che portarono a grandissime scoperte e teorie rivoluzionarie. Eravamo
però anche assediati da curiosi e giornalisti, da inviti a conferenze ed
eventi.
Albert
era popolarissimo e non ci scandalizzammo troppo quando una domenica pomeriggio
ci chiamò qualcuno dalla redazione di un famosissimo settimanale per una
intervista da tenersi obbligatoriamente quel giorno.
In
dispensa avevo ancora tutto l’occorrente per il dolce della nostra patria e
qualche altra leccornia da offrire a chi fosse toccato quell’incarico.
Accettammo quindi dando appuntamento entro un’ora.
Puntuali
arrivarono dribblando la solita ressa davanti casa. Li feci entrare con ancora
addosso il grembiule e le scarpe comprate nella Grande Mela.
Passando
per la cucina si accomodarono in salotto. Erano in due: uno con un taccuino in
mano e una matita dietro l’orecchio, mentre l’altro aveva con sé una borsa
dalla forma strana.
Andai
a rinfrescarmi il viso in bagno e quando mi affacciai in sala da pranzo li
scorsi chiacchierare e ridere come buoni amici. Non interessandomi a cosa
discorressero mi occupai della tavola.
Appena
Albert capì cosa avevo preparato, fece una smorfia di disgusto. Non gli piaceva
più quel dolce: per lui sapeva troppo di Germania, di orrore, di guerra e non
di mele, cannella e uvetta.
Lo
scorse l’uomo con la strana borsa e gli chiese di ripetere il gesto mostrando
una macchina fotografica. Mio marito allora tirò fuori del tutto la lingua e strabuzzò
gli occhi.
Fu un
attimo, uno di quelli che determinano il destino di un uomo. A nulla valsero i
suoi studi e le sue ricerche: la condanna di intellettuali e benpensanti fu
quasi unanime.
La
cosa poi divenne pubblica al punto da far sparire l’assedio di curiosi in
giardino, ma donò all’umanità intera la netta visione della faccia privata e
nascosta di Albert E.
Se ne
andarono contenti i due signori venuti da lontano quel giorno, accompagnati
alla stazione dai nostri vicini.
Ne
sentimmo parlare a lungo e leggemmo per molto tempo i loro articoli sui più
famosi quotidiani.
Dopo
quell’episodio ritrovammo la tranquillità, anche se ci pentimmo di aver
accettato quella visita.