venerdì 6 dicembre 2013

FOLLIA QUOTIDIANA


I ragazzi, di qualunque età, scatenano la loro gioia, i loro problemi e le loro ansie nel cortile della scuola. Lì ne succedono di storie, ordinarie, brutte o belle. O folli per un coraggio civile che dovrebbe splendere negli animi di ciascuno. C’è molta diversità di etnie che si riversa con qualsiasi tempo a prendere una boccata d’aria nel quarto d’ora di intervallo, gruppi nemici in patria che qui, da profughi o immigrati, perseverano nelle loro lotte ataviche.
Bisogna fare molta attenzione che non si venga alle mani, che il limite non venga superato, che non ci siano danni né a cose né a persone. Occhi vigili e silenziosi seguono una panoramica di 200 gradi con circospezione. E registrano.
Loro lo sanno, ma non gliene importa. Loro hanno solo una meta: la supremazia sugli altri.
Mario, professore di italiano alla Media “PASCALE” sta volentieri di sorveglianza durante la ricreazione, soprattutto quest’anno, con la collega di inglese, una italo-canadese arrivata da lontano e ancora molto disorientata, in giro, ritenendo la pausa un’unica se non rara occasione per qualche timido approccio.
Anche quel giorno i soliti facinorosi si fiondano sul ring, circondati da tifosi e bookmaker in erba. Le scommesse sono a base di merendine e qualche doppione di figurina. Al massimo una ricarica da 5 Euro o copia crackata del videogioco di moda. Il backstage si affolla di fan di Twitter e Facebook che agitano indisturbati i loro pollici sulle tastiere. Sembra tutto tranquillo in una primavera che ha deciso di irrompere tra i rami e le case.
I due capi “cosca”, Roman il serbo, quindici anni, ancora in seconda e Ivan, croato, tredici, della terza E, si fronteggiano proprio al centro del parcheggio interno con sguardi minacciosi. Mario se ne accorge, ma vuole vedere dove i due vogliono arrivare. Si avvicina con nonchalance, soprattutto per ascoltare. Invece raccoglie solo sguardi e trova nei loro occhi tutto l’odio che generazioni hanno covato nei secoli, tra guerre e dittature. Percepisce la tensione e si irrigidisce. Ora tutto può succedere al volo di una mosca. Non un muscolo si sposta. Non una carta vola. Da lontano solo il contatore e il suo tichettio alla rovescia.
In quei pochi metri quadri il destino fa il suo gioco. Null’altro interessa. Si attende il momento buono. Loro lo sanno quando arriva.
Al trillo della campanella per il rientro scattano fulminei sciabolando i loro svizzeri a serramanico celati in un taschino. Mario li sorprende e agguanta i polsi di ognuno con presa salda e stretta. Uno sguardo a destra e uno a sinistra, mentre il pubblico si dilegua.
Pauline, la prof, lo fissa e non riesce a muoversi dal posto, intralciando il passaggio del Preside precipitatosi a dirimere una questione che ora non esiste più, per lo meno nella sua manifestazione fisica. I coltellini cadono, i contendenti spariscono nelle rispettive classi, sicuri di venire interrogati nelle materie successive o sottoposti a compito in classe non annunciato con tema unico. I bookmaker intasano i bagni per fare i conti in tranquillità.
Mario rimane immobile, come qualcuno che viene beccato sul fatto. Il preside lo raggiunge e lo convoca nel suo ufficio. Subito, immediatamente è il comando. Bisogna obbedire, pena nota sospensiva.
La vergogna gli si legge in faccia: ha osato intromettersi. Pazzo. Perché. Cerca il contatto visivo con Manuela, la segretaria, che non ha il tempo di alzare la testa dalle fatture e dai verbali da trascrivere. Solo davanti al suo superiore, non sa come giustificarsi. Sarebbe facile se le sue motivazioni venissero riconosciute, ma il preside vuole disciplina soprattutto dagli insegnanti.
“Disciplina vuol dire essere autorevoli senza immischiarsi, senza mettersi in mezzo o rimetterci le penne. Quel pericolo è scontato che un giorno o l’altro viene a cosa, ma per ora cerchiamo di non soffiare sulle braci, capito?”
Il discorso rotola. Mario a stento trattiene l’impulso a rispondere, a dirgli che ci vuole coraggio. Sì coraggio, quello delle proprie azioni in favore del bene, della pace, dell’armonia e anche, sì, anche dell’integrazione.
Invece tace e gli si arroventano le guance. Il preside lo guarda da vicino, troppo vicino, in attesa di reazione. Non se la meriterebbe e poi tutto tempo sprecato con quello, un rifiuto della mafietta locale, un debole dalla mediocrità supersonica che arranca aggrappato alle sue relazioni importanti, rimanendo sempre portaborse.
Una nuova sconfitta: anche stavolta ha vinto la falsa moralità del “non è successo nulla”. Forse sarà anche stato uno scherzo tanto per far arrabbiare qualcuno. E ci riescono appieno.
Nel tornare al suo lavoro Mario passa accanto all’aula dove Pauline sta facendo lezione. Parla nella sua lingua madre e la voce risuona armoniosa. Sarebbe naturale tornare alla normalità lasciandosi alle spalle un fatto senza conseguenze apparenti.
Il coraggio a volte sorpassa in curva la rabbia per l’ingiustizia e spinge la gente ad azioni più pericolose di quelle che vorrebbero spegnere. Mario non è il colpevole, ma si sente tale.
Dover subire umiliazioni o solo ramanzine per aver dimostrato di voler porre fine a una stupida diatriba tra ragazzini prima che succeda qualcosa di cui ci si potrebbe poi pentire. Questo lo distrugge. La rabbia sale mentre scende gli scalini d’uscita. Andarsene da quel luogo, da tutto e da tutti. No non da Pauline che forse capirebbe.
Lei lo osserva come sempre dalla finestra del primo piano che dà sul cortile. A Toronto ha assistito a molte altre scene di violenza, ma nessuno aveva mai osato in quel modo. Nella sua mente solo un pazzo lo avrebbe fatto. A proprie spese.

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