I ragazzi, di qualunque età, scatenano la loro gioia, i loro
problemi e le loro ansie nel cortile della scuola. Lì ne succedono di storie,
ordinarie, brutte o belle. O folli per un coraggio civile che dovrebbe
splendere negli animi di ciascuno. C’è molta diversità di etnie che si riversa
con qualsiasi tempo a prendere una boccata d’aria nel quarto d’ora di
intervallo, gruppi nemici in patria che qui, da profughi o immigrati,
perseverano nelle loro lotte ataviche.
Bisogna fare molta attenzione che non si venga alle mani,
che il limite non venga superato, che non ci siano danni né a cose né a persone.
Occhi vigili e silenziosi seguono una panoramica di 200 gradi con
circospezione. E registrano.
Loro lo sanno, ma non gliene importa. Loro hanno solo una
meta: la supremazia sugli altri.
Mario, professore di italiano alla Media “PASCALE” sta
volentieri di sorveglianza durante la ricreazione, soprattutto quest’anno, con
la collega di inglese, una italo-canadese arrivata da lontano e ancora molto disorientata,
in giro, ritenendo la pausa un’unica se non rara occasione per qualche timido
approccio.
Anche quel giorno i soliti facinorosi si fiondano sul ring,
circondati da tifosi e bookmaker in erba. Le scommesse sono a base di merendine
e qualche doppione di figurina. Al massimo una ricarica da 5 Euro o copia
crackata del videogioco di moda. Il backstage si affolla di fan di Twitter e
Facebook che agitano indisturbati i loro pollici sulle tastiere. Sembra tutto
tranquillo in una primavera che ha deciso di irrompere tra i rami e le case.
I due capi “cosca”, Roman il serbo, quindici anni, ancora in
seconda e Ivan, croato, tredici, della terza E, si fronteggiano proprio al
centro del parcheggio interno con sguardi minacciosi. Mario se ne accorge, ma
vuole vedere dove i due vogliono arrivare. Si avvicina con nonchalance,
soprattutto per ascoltare. Invece raccoglie solo sguardi e trova nei loro occhi
tutto l’odio che generazioni hanno covato nei secoli, tra guerre e dittature. Percepisce
la tensione e si irrigidisce. Ora tutto può succedere al volo di una mosca. Non
un muscolo si sposta. Non una carta vola. Da lontano solo il contatore e il suo
tichettio alla rovescia.
In quei pochi metri quadri il destino fa il suo gioco. Null’altro
interessa. Si attende il momento buono. Loro lo sanno quando arriva.
Al trillo della campanella per il rientro scattano fulminei
sciabolando i loro svizzeri a serramanico celati in un taschino. Mario li
sorprende e agguanta i polsi di ognuno con presa salda e stretta. Uno sguardo a
destra e uno a sinistra, mentre il pubblico si dilegua.
Pauline, la prof, lo fissa e non riesce a muoversi dal
posto, intralciando il passaggio del Preside precipitatosi a dirimere una
questione che ora non esiste più, per lo meno nella sua manifestazione fisica. I
coltellini cadono, i contendenti spariscono nelle rispettive classi, sicuri di
venire interrogati nelle materie successive o sottoposti a compito in classe non
annunciato con tema unico. I bookmaker intasano i bagni per fare i conti in
tranquillità.
Mario rimane immobile, come qualcuno che viene beccato sul
fatto. Il preside lo raggiunge e lo convoca nel suo ufficio. Subito,
immediatamente è il comando. Bisogna obbedire, pena nota sospensiva.
La vergogna gli si legge in faccia: ha osato intromettersi.
Pazzo. Perché. Cerca il contatto visivo con Manuela, la segretaria, che non ha
il tempo di alzare la testa dalle fatture e dai verbali da trascrivere. Solo
davanti al suo superiore, non sa come giustificarsi. Sarebbe facile se le sue
motivazioni venissero riconosciute, ma il preside vuole disciplina soprattutto
dagli insegnanti.
“Disciplina vuol dire essere autorevoli senza immischiarsi,
senza mettersi in mezzo o rimetterci le penne. Quel pericolo è scontato che un
giorno o l’altro viene a cosa, ma per ora cerchiamo di non soffiare sulle braci,
capito?”
Il discorso rotola. Mario a stento trattiene l’impulso a
rispondere, a dirgli che ci vuole coraggio. Sì coraggio, quello delle proprie
azioni in favore del bene, della pace, dell’armonia e anche, sì, anche dell’integrazione.
Invece tace e gli si arroventano le guance. Il preside lo
guarda da vicino, troppo vicino, in attesa di reazione. Non se la meriterebbe e
poi tutto tempo sprecato con quello, un rifiuto della mafietta locale, un
debole dalla mediocrità supersonica che arranca aggrappato alle sue relazioni
importanti, rimanendo sempre portaborse.
Una nuova sconfitta: anche stavolta ha vinto la falsa
moralità del “non è successo nulla”. Forse sarà anche stato uno scherzo tanto
per far arrabbiare qualcuno. E ci riescono appieno.
Nel tornare al suo lavoro Mario passa accanto all’aula dove
Pauline sta facendo lezione. Parla nella sua lingua madre e la voce risuona
armoniosa. Sarebbe naturale tornare alla normalità lasciandosi alle spalle un
fatto senza conseguenze apparenti.
Il coraggio a volte sorpassa in curva la rabbia per
l’ingiustizia e spinge la gente ad azioni più pericolose di quelle che
vorrebbero spegnere. Mario non è il colpevole, ma si sente tale.
Dover subire umiliazioni o solo ramanzine per aver
dimostrato di voler porre fine a una stupida diatriba tra ragazzini prima che
succeda qualcosa di cui ci si potrebbe poi pentire. Questo lo distrugge. La
rabbia sale mentre scende gli scalini d’uscita. Andarsene da quel luogo, da
tutto e da tutti. No non da Pauline che forse capirebbe.
Lei lo osserva come sempre dalla finestra del primo piano
che dà sul cortile. A Toronto ha assistito a molte altre scene di violenza, ma
nessuno aveva mai osato in quel modo. Nella sua mente solo un pazzo lo avrebbe
fatto. A proprie spese.
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